LE OPERE

La Realtà del Mito

C’è fra i tanti un bel disegno di Camillo Catelli cui non credo egli abbia dato ancora un titolo, ma che parla da solo. Come del resto è normale. Un titolo rischia d’essere persino fuorviante: ciò che ha da dire l’immagine lo dice da sé. In quel disegno (matita carboncino e pastello) si vedono in primo piano tre figure, altre sono sullo sfondo in una congerie di segni che alludono a intrichi vegetali o a tendaggi; accanto, strisciate di pastello bianco suggeriscono un varco, come un sipario alzato su vasti spazi. Riferirlo così serve a poco, come voler raccontare una musica -che invece è fatta di suoni, e il suo senso, il suo spessore poetico non si può darlo in parole. Così, il disegno è fatto appunto di insostituibili segni. Eppure qualcosa su tutta l’opera di Catelli si può dirla muovendo proprio da quel foglio.

Intanto, non da quello soltanto ma da tutta la sua grafica si intuisce che si tratta del lavoro di uno scultore. Nella scultura, si sa, lo spazio è elemento fondante; l’opera vive non soltanto in esso ma di esso. La pittura lo rappresenta sulla superficie piana, la scultura invece lo cattura (o ne è catturata) realmente. Per cogliere la struttura di un’opera, per poterla davvero comprendere, è necessario muoversi intorno ad essa; e così pure nel bassorilievo: quel tanto che consenta di rendersi conto degli aggetti senza i quali esso non è completo. Anche nei disegni Catelli sente urgente il problema dello spazio, sia per la frequente raffigurazione di archi, varchi, blocchi o pareli trapassate da corpi – proprio come in tanta piastica; sia perché, specie nei fogli meno recenti, le forme mostrano le superfici tronche e i piani sovrapposti così frequenti nella scultura. Solo di rado si riscontrano volumetrie, rotondità, allusioni insomma alla plastica propriamente detta. Catelli non disegna per progettare o preparare; il suo segno rapido e nervoso è come sospinto da una forza misteriosa ignota allo stesso autore. Il risultato può essere più o meno forte, ma l’autenticità e l’urgenza – l’assenza di pretesti o velleità – sono sempre presenti.

Tratto comune ai linguaggi grafico e plastico è la componente fantastica: Catelli (specie nella scultura, e soprattutto nei bronzi) può ben dirsi un visionario. La sua irruenza immaginativa è irrefrenabile; senti che il segno costruisce, snerva, rastrema, spolpa come la mareggiata raschia e divora la costa. Certe successioni di corpi nello stesso foglio, tra bagliori e dissolvimenti s’inseguono e s’accavallano come onde in tempesta.

Disegno e scultura si danno la mano, nei primi intuisci la seconda più di quanto da questa deduci quelli. Però l’autonomia reciproca è perfetta, rami di un albero rigoglioso che vivono ciascuno per sé. Per la scultura questo è di tutta evidenza, ma chi guardasse i disegni senza conoscere l’opera plastica quasi non sentirebbe bisogno d’altro. Così avviene per tanti artisti che esercitano due linguaggi con eguale efficacia; valga, per andare alle vette, l’esempio di Rembrandt, egualmente inarrivabile come pittore e come incisore: questo non fa sentire la mancanza di quello – che per fortuna si aggiunge all’altro.

Catelli vive a Roma ma è napoletano, e ciò rileva non poco. Suo nonno, pittore, quasi quarantanni fa presentando il nipote scriveva-, l’idea fissa e delirante del nuovo ad ogni costo… mi sembra che ancora non abbia avvelenato la mente di questo giovane…”. Camillo aveva ventidue anni; sappiamo qual era la situazione dell’arte non soltanto italiana in quel 1971, e anche Napoli ne era largamente partecipe. In quella mostra il giovane esponeva pitture e disegni che preannunciavano il futuro sviluppo, rivelando da un lato estrema scioltezza di mano e d’intelligenza formale, e denotando dall’altro sia il coinvolgimento nel clima comune sia gli sguardi attenti alla storia delle avanguardie, soprattutto il surrealismo e I espressionismo. Sguardi, non prestiti. Due fattori lo tenevano al riparo dal multiforme coté astratto: da un lato la sua natura (“è un napoletano di terra – scrisse di lui quel finissimo pittore che era suo suocero Arnoldo Ciarrocchi – un napoletano dei Camaldoli, dove la natura è ancora quella di Poussin e dove ci sono i pastori con le capre.

Camillo tende a evaderne per vie diverse: dalle impennate fantastiche alle sottili, indecifrate eppure prementi opzioni narrative, alla frequente commistione delle due versioni.

Una scultura come Marinella al bagno (2003) da un lato affronta un tema che in secoli di pittura ha toccato vette celebri, dall’altro bene esemplifica anche se non esaurisce la poetica di Catelli: quella sua vena – da non sottovalutare – che in un quieto intento narrativo trova inedite soluzioni plastiche. Nel disegno da cui questa nota prende le mosse i segni arrovellati alludevano forse a intrighi vegetali, forse a tendaggi, certo erano insieme nodi e snodi spaziali; qui il modellato e la diversificata patina del bronzo “raccontano” le tende: a mostrare, piuttosto che a nascondere il pudico, magnifico nudino. Anche la relativamente piccola Figura del 2000, ombrosa e cupa, ravvolta e insieme scoperta dal gran manto romantico, si fa personaggio di una pièce non detta ma raccolta nell’atteggiamento impetuoso. Salvo rare eccezioni in tutta l’opera di Catelli, quando patente quando latente, è reperibile una tendenza al racconto, mai aneddotica o bozzettistica, sempre invece suggestivamente allusiva. Marinella, anch’es-sa del 2003, dice qualcosa di più: come l’inserirsi dell’artista nella contemporaneità non escluda, anzi non esiti a esibire i debiti verso la classicità. Al di là del riferimento a modelli celebri conta l’intensità dell’afflato, il perduto abbandono della figura rivissuto in plastica scioltezza. Alla conturbante, a volte collosa aura mitica di Perez – cui spesso Catelli deve più di un tratto del suo modellato – è sostituita l’immediatezza di un sentimento semplice e confidente. Non qui soltanto. Analogo sentire è negli amanti del 2002 o in quelli del 2003: là arresi ad una passione intensamente ma non riduttivamente romantica, qui trascinati da una veemenza esuberante; nell’un caso e nell’altro l’agilità del modellato, il gesto che si fa onda, nuvola, intrico di ramaglie, è insieme eco e motore dell’impulso emotivo.

Ma le corde di Catelli sono tante e non di rado vibrano insieme. Raggio di sole o Figura nel paesaggio, rispettivamente del 2002 e del 2003, sposano -come più ancora avviene nelle recenti terrecotte – le vene narrativa e fantastica, entrambe immerse in quel gusto della materia, in quella panicità delle cose e del sentire che nell’artista resta centrale. Dalla crosta del mondo affiorano echi, memorie, brani di vita, quasi la terra stessa volesse farsi voce di ere, di storie e culture arcaiche e pure pulsanti. Figura nel paesaggio meglio si chiamerebbe Paesaggio con figura, poi che è esso, il paesaggio, figura e struttura di un sentire cosmico dove il personaggio, imperscrutabile arbitro di oscuri destini, è parola di una lingua trapassata ma viva. È qui una vaga ma non casuale tangenza con l’arcaismo drammatico, falsamente eroico di Sironi, quasi anzi sovente una sua traduzione vigorosamente plastica.

Se Catelli non accoglie la cupa componente simbolista del tardo Perez, anch’egli tuttavia per strade diverse giunge a una dimensione mitica. Non fuga dalla realtà ma personale modo di coglierne sensi riposti: le voci cattivanti o paurose del mare, quelle misteriose della terra. Per questo nel bronzo citato da ultimo è quasi arduo parlare di figura – come sa lo stesso scultore che altrove titola piuttosto Paesaggio con altre presenze (2002): indecifrabili paesaggio e figure, inesplicabile la vicenda. Eppure, come in un’opera lirica di cui non si conosca la trama ma egualmente si è presi e compresi dalla musica, così la voce della scultura si fa strada nell’arcano, le parole in apparenza disarticolate (il navigante, l’austera divinità avvolta dalla rocca-stanza, l’albero-per-sonaggio) si fanno avvincente racconto. Lo stesso vale per il possente Paesaggio con figure e altre presenze (2003), dove il vago sironismo sposa il teso rovello catelliano.

L’aggancio dell’artista al reale, esplicito o sotteso, è costante; il trapassare dal vero (per quanto reinventato) a sue sottilmente progressive alterazioni rimarca la tendenza visionaria. Così, nell’enfasi di un gesto il braccio o il corpo stesso si fanno panneggio, onda, fronda, e l’albero o il cespuglio diventano il cigno di Zeus, o personaggi variamente curiosi, protettivi, minacciosi. In I cavalli di Ermanno e le rovine (2000), o in Le terme dei cavalli di Ermanno (2002), l’estemporanea citazione dell’allevamento equino di un amico è pretesto per una sorta di mitica epopea dei cavalli in un’impennata fantastica ed emotiva, ebbra e impetuosa nel secondo caso, più pensosa e quasi metafisica nel primo.

Sulla prensile cultura di Catelli s’è citato fugacemente, fra altri, Arturo Martini. Ma per le terrecotte più recenti il riferimento al trevigiano vuole qualche considerazione aggiuntiva. Se in quell’attorcersi della forma, che in tanti bronzi è insieme complessa introversione, risulta funzionale l’insistita menzione di Perez, è invece in Martini che va riscontrata la pregnante inclinazione fabulatoria di Catelli. Martini,dopo le iniziali, personali aperture d’avanguardia, le tangenze tedesche e parigine, gli scambi intensi con Gino Rossi, al suo scorcio ultimo sfiorò l’astrazione. Una terracotta come Composizione del ’44 – che nettamente si distacca dall’afflato evocativo di quel suo versante in apparenza artigianale e dimesso – non è estranea a certe tarde opere di Catelli che similmente sembrano abbandonare quella sua vena che s’è detta fabulatoria, tanto più accentuata nelle terrecotte che nei bronzi.

Ma non è il solo parallelo. Innumerevoli piccole terrecotte martiniane degli anni venti e trenta (La moglie del marinaio, Donna alla finestra, La tempesta, Il lago delle sirene, a citare qualcuno di quegli incantevoli gioielli) possono riscontrare gran parte delle terrecotte di Catelli – che non dimettono tuttavia precipui, essenziali tratti distintivi. Sia nelle infrequenti ma squisite figure prive di ambientazione, fasciate, carezzate da un quieto e intenso retaggio romantico, sia nelle più compiesse ambientazioni paesistiche, si coglie un’ultima eco di quegli abbandoni vagamente pereziani più visibili in altro tempo; ma a quei vaghi languori si uniscono, e prevalgono, una magia e una fantasia, esse sì prive di riscontri. I personaggi abitano uno spazio terremotato, sfaldato, diroccato; e in quello spazio, come in un habitat da sempre ad essi predestinato, è tutto il loro vivere e morire. In quegli anfratti non s’intravede la consolante, malinconica casetta donde s’affacciava la sognante figuretta di Martini, ma rifugi che ricordano piuttosto le preistoriche grotte materane. A comprensibili sentimenti di dolore o paura è sostituito un trasognamento, un misterioso incantato atteggiarsi in cui i personaggi sono rapiti – e che rapisce lo spettatore.

Catelli è di carattere schivo e ritroso, lavora nel segreto dello studio e le sue mostre si distanziano di anni o decenni. Non sono mancate, ma si contano quasi soltanto sulle dita delle mani, mentre straripano quelle di artisti che valgono – se valgono – assai meno. Dipende da lui stesso, certo; lui preferisce lavorare, non mostrarsi. Ma non è questo soltanto. Nel presentare una sua mostra romana sui primi anni ottanta, Dario Micacchi, contrapponendo la “melanconia frenante di Giorgio de Chirico” alPavan-zare drammatico ma positivo di Boccioni”, diceva le opere del giovane Catelli “tra le più originali e belle che sia dato vedere della scultura italiana d’oggi”. Variando magari le motivazioni, Dario direbbe ancora lo stesso; ma la situazione generale è diversa, non fosse altro per essersi consolidati, cementati quelli che allora forse erano ancora rischi: gravi, ma rischi. Ora sono disperante certezza. Le grandi mostre internazionali parlano chiaro, i premi, le aste. Dei concetti stessi di pittura e scultura non si sa più che fare o che dire. Anche tanti di coloro che una volta si chiamavano figurativi volgono spesso o alle deformazioni di remota matrice espressionista, oppure a un verismo fotografico o cimiteriale.

L’estro, la fantasia, il coraggio di non demordere da una linea e da una cultura di cui ci si sente eredi, ma vivi, immersi nel nostro tempo – sono sempre più rari. Perché segni del tempo nostro sembrano la bizzarria, la pretestuosità gratuita, la tautologia. Anche il vecchio épater le bourgeois ha ceduto all’obbligo del conformismo, al cui interno c’è tuttavia spazio per le trovate più clamorose o più banali date in pasto a un volgo purtroppo crescente. No. Con Catelli e con pochi altri il discorso è diverso. Qui i talenti non vengono svenduti. Camillo, colto e vigile non meno di quanto appaia – ed è – ritroso, lavora, scava da decenni. I talenti, di cui la natura gli è stata generosa, li coltiva: elabora, fantastica, verifica; viene da lontano, dalla gavetta, si diceva un tempo: lavora la pietra con mestiere antico, modella la creta, conosce e pratica la formatura, le fusioni, le patine, – artigiano non meno che artista. È anche lui di quei tenaci cui sono affidate le residue speranze che davvero l’arte possa non morire.

Recensione di Guido Giuffrè