Renato Civiello – 1986
Una scultura che canta la rapina dei giorni e il dramma dell’attesa

Se ci si ferma a considerare con la dovuta attenzione il gruppo di opere, in terracotta ed in bronzo, presentate da Camillo Catelli in via del Vantaggio, alla Galleria “Trifalco”, non si può non concordare col giudizio di Dario Micacchi (riportato in catalogo con pochi altri di varia estrazione ed angolazione) che si tratta di “sculture assai tipiche, tra le più originali e belle che sia dato vedere della scultura italiana d’oggi”. Da parte mia, ho sempre sostenuto che i nostri scultori contemporanei – e mi riferisco in particolare a quelli della generazione di mezzo e della nuova generazione, disposti, per difetto di nutrimento proprio, ad un identificarsi eclettico con una molteplicità di archetipi dominanti – si sono incostruttivamente mimetizzati nel martinismo, nel giacomettismo in una misura paraclassica grecheggjante o fazzineggiante, o ancora, infine, in una socialità oratoria e incautamente cronachistica che ha pagato il suo contributo di “maniera” alla fastidiosa fungaia del realismo.

Ed ecco perché fa veramente piacere trovare un artista come Catelli, giovane ma già sapientissimo quanto a scelte di coscienza e a responsabilità di mestiere, pronto ad esprimersi solo nella più rigorosa linea dell’assenso emotivo. Queste sculture sono legittimate dalla promozione interna; e si avverte, nella inquieta meraviglia delle soluzioni formali, nella tensione mobile di una massa che si stende e si aggroviglia, si dichiara e si nasconde nell’inaspettato privilegio del complementare, che esse sono straniere del tutto al compiacimento dell’atteggiarsi più o meno inedito, rispondendo invece al grido dell’anima.
L’impegno è severo, e senza l’apporto del più congruo dominio dei mezzi sarebbe tutt’altro che gratificante: la materia è passivamente feroce, si ostina a non farsi plasmare, e occorrono, per dominarla, pienezza di sentire, intelligenza, filtro professionale. Sono doti che Catelli possiede, da scultore di razza, ed è perciò che può avvenire il miracolo di un’arte così prodiga di vibrazioni e di risonanze spirituali. Qui il problema della forma è indivisibilmente connaturato con quello degli impulsi ideali, con il tentativo di dar corpo agli interrogativi del pensiero e allo struggimento del cuore, alla elegia ambigua del vivere tramata d’improvvise lacerazioni.

Catelli mostra di essere contrario al concetto tradizionale di statuaria; e promuove piuttosto esperienze plastico-architettoniche dove il contenente volumetrico e le quinte a prima vista aggiuntive giocano un ruolo necessario ed implicante (si vedano Edicola con figura, Trittico, Teatro del Mediterraneo, La casa del poeta, ed altre opere di complessa determinazione strutturale). Sicché I’ ”amore prioritario per la forma” cui accennavo in occasione, mi pare, di una personale dell’artista alla Galleria “L’Indicatore”, non esclude, ed anzi la potenzia permettendone una esaltante focalizzazione, la “patèia” speculativo – esistenziale, fatta di brividi e di smarrimenti, di consonanze dolorose e di enigmatiche sospensioni.

Domina, su tutto, il senso di un’attesa senza fine, di una inafferrabile presenza proiettata entro i cicli delle speranze e che si sottrae, come una sfinge malvagia, a qualsiasi certezza della cronaca. Mi vien fatto di pensare a quello che io ritengo il capolavoro di Samuel Beckett, a quell’ Aspettando Godot che sublima ossessivamente il dialogare inutile e i lunghi silenzi dei personaggi che attendono l’arrivo del testimone salvifico. Sarà veramente un Dio, la giustizia sociale, un cataclisma rigeneratore? La macina del tempo, anche nella splendida scultura di Camillo Catelli, non aiuta il prodigio: le ore trascorreranno senza redenzione, il colloquio fra queste forme impulsive e tuttavia medusèe, che sembrano tremare davanti ad un fantasma senza nome, non avrà mai una risposta.

Siamo lontanissimi, con questo modo di fare scultura, dall’estetismo; e, naturalmente, da ogni indulgenza al programmato e al declamatorio. Catelli ubbidisce anzitutto ad un bisogno di natura etica; ma così generoso e spontaneo che la poesia non può esserne che dono conseguenziale.

Certo, la volontà di far collimare quanto più possibile, a dispetto dell’accennata impietosa riluttanza della materia, idea e approdo espressivo, avvertimento e risultato linguistico, impone durissima lotta, tenacia di ardimento ed insieme di disciplina; e il rifiuto di tutto ciò che sia epidermico e accattivante, vestito degli ori della festa visiva, obbliga l’artista ad offrire, a chi se ne intende, i termini di riscontro formale della sua tormentata opera di scavo.

Ma i conti tornano; il “vissuto interiore” ha trovato nobile adeguamento. E il modello stilistico si rivela nuovo, originale, legato all’entusiasmo operativo e non alle equazioni delle ascendenze più o meno blasonate.