Arnoldo Ciarrocchi – 1989
Presentazione in cat. alla Galleria Centofiorini

Catelli è un uomo di poche parole.
Non sopporto il pittore (e lo scultore) dalla parlantina sciolta; mi piace quello che lavora in silenzio.
Catelli non è un napoletano d’aria è un napoletano di terra un napoletano dei Camaldoli dove la natura è ancora quella di Poussin e dove ci sono i pastori con le capre. Qui ha un cantiere a cielo aperto come da noi i calafati. Scheletri di pescherecci abbandonati sulla spiaggia come la carcassa di una balena.
Qui fonde i suoi idoli di bronzo con l’arte degli antichi maestri di Ercolano.

A Napoli all’Accademia di via Costantinopoli (mi piaceva dire: “insegno a Costantinopoli”). Maria Teresa mi parlava di un ragazzo ricco solo di talento che io avrei dovuto ammettere a scuola perché potesse tirare una prova delle sue lastre incise.
Nelle Carte napoletane ho indicato quali dovrebbero essere le misure delle lastre: quelle della stampa dei Centofiorini di Rembrandt.
Ciò che avrebbe dovuto oltretutto contenere il consumo dell’inchiostro Lorilleux e del petrolio che io, secondo l’economo, bevevo come se fosse rosolio.

Quel ragazzo si chiamava Camillo Catelli. Egli incideva lastre ancora più grandi delle vedute di Roma di G.B. Piranesi che io ho stampato quando lavoravo alla Calcografia: lastre grandi come quelle dello Specchi e del Falda, Contenere la sua vivacità non era possibile come non è possibile arginare le acque di un torrente in piena. Non lo si poteva costringere a lavorare a punta d’ago. Egli era capace di lavorare sotto il solleone come uno spaccapietra e di sfoltire la chioma di un pino a colpi di roncola e di ammazzare un coniglio stringendogli la teste con due dita.

Chi l’ha seguito almeno un poco qui all’Asola ne lavoro di sbozzatura del monumento al marinaio, ha visto come egli riuscisse con un colpo d mazzolo a far saltare da quella pietra schegge grosse come quelle che gli uomini del pliocenicc usavano per ammazzare un bisonte. Aveva voluto egli stesso una pietra dura, nemica come quella che usarono i marmorari etruschi per i sarcofagi di Tuscania che pare impastata di cemento e di ghiaia, una pietra che sotto i colpi del mazzolo sprizza scintille come il ferro. Una pietra che non consente squisitezze formali come quelle dell’Apollo e Daphe di Gian Lorenzo Bernini: foglioline vibranti aH’aria, dita che sembrano confetti succiati.

Aveva costruito con le tavolone del muratore, bianche di calcina, una specie di castello o torre, una macchina da guerra per pigliarla dall’alto e domarla allo stesso modo che usarono i soldati del medioevo per conquistare una città cinta di mura.

Faceva alla guerra dalla mattina all’alba fino al tramonto con la polvere come schegge di vetro che bruciano gli occhi e la gola. Lo guardavamo lavorare come si guarda lo spalatore in un cantiere di scavi o il Cristo che trae Lazzaro dal sepolcro.