Ferdinando Anselmetti – 1991
(da “Quelli che contano”, ed. Marsilio)

L’armoniosità della forma insita nella scultura di Catelli, già d’altronde celebrata negli antichi maestri di Ercolano, si rivitalizza in un contesto più reale del barocco, più libero e intuitivo, maggiormente qualificato in una scultura personalizzata: vale a dire nel complesso di un’indagine conseguente alla cultura greca e romana antica, da cui la partenopea ricava ispirazione e canoni espressivi.

Scultura peraltro di momentanea adattabilità, di un abbandono carico di orpelli o di decadentismi crepuscolari. Esigenza nuova ma rapportata alla necessità reale, nella scoperta di un quotidiano non fotograficamente artefatto, ma ricavato da un’immagine povera e severa della realtà circo-stanziale, in una nuova intraprendenza condizionata dall’osservazione della congenita scaltrezza della gente campana e del suo conseguente permissivismo intellettuale.

Dal presepe regale come dai personaggi tipici di Gemito, da una tradizione ammantata ancora dell’ingerenza borbonica, nasce, con emotività di segno, la scultura di questo artista: accattivante certamente per la qualità formale e per il contenuto suggestivo, ma consolidata in quella reale ricerca che sa di povertà scugnizza, coinvolta nella necessità di quella rappresentazione inerme in cui stagna chi non può competere, in queiravventata plasticità che, nel suo movimento, soccombe.

Pertanto l’attualità di Catelli trova la sua linfa nelle più lontane radici dell’antenato partenopeo, celebre nei pescatori scalzi o negli scugnizzi furbi, ugualmente valide oggi come allora nella tragica rappresentatività di chi nell’anagra-fe non ha nome. In quella coesistenza sociale che non ha merito se non quando, nell’impulso della temerarietà, l’elemento plastico sommerge la staticità dell’impulso creativo.

L’idea del presepe o del proscenio di teatro si traduce scultoricamente nell’indagine degli elementi compositivi, allorquando Catelli, per sua atavica necessità, avvolge in un apparentemente profetico protezionismo lo svolgersi che sulla scena si racconta. O quando inconsapevolmente delimita in un contorno protettivo la fragilità del personaggio: a difesa di chi o di che cosa, non si sa: ma comunque da qualcosa di imponderabile che opprime e incute timore.

Da qui l’idea del tabernacolo: sacrale come palcoscenico nella rappresentatività e nell’inviolabilità di un gioco. E nascono anche le figure dei seducenti bassorilievi o degli altorilievi alteri: ebbri in quella plasticità compositiva che traduce le passioni dell’animo umano. Oppure le molteplici composizioni di quotidiane rappresentazioni riflesse nei bronzi e vivificate da una luce che ne sottolinea i rilievi e, nella più evidente lucentezza, determina anfratti tutti da scoprire.

Le figure si snodano nella morbosità della forma, così come i drappeggi delle cortigiane invitano alla scoperta. I bassorilievi come scene di teatro commemorano il dramma: nella variazione dei verderami di cui il bronzo subisce le impronte: nelle stesse asperità in cui l’uomo soccombe o, per altri versi, in una più conciliante bonarietà. I temi trattati, pur nella molteplicità delle forme, vengono attualmente superati con le terracotte, in uno studio sulle terre emerse, nascoste nel mistero del mare e prefigurate come ricerca di una precaria stabilità, come faro di riferimento alla maniera di un totem o di un obelisco. Col risultato di un’istintiva irrazionalità e di un nuovo rapporto con gli elementi creativi.

Nel senso della ricerca di una nuova libertà, quella del bambino che modella la creta seguendo i dettami dell’inconscio e ricava le prime forme sorprendenti. Dimenticando di definire la figura in uno spazio chiuso, in un senso liberatorio del sommerso.
E ne consegue la casa del poeta, già dapprima costruita nell’anfratto del monte ed ora posta sulla sommità; nella duplice ricerca di libertà e di scoperta del misterioso: come nell’interrogativo straordinario del mare, sempre ripetuto e sempre affrontato con coraggio.

“La finestra del poeta”, “La casa del poeta sulla sommità del monte”, la “dinamica sulla città”, “l’isola”, sono le titolazioni da Catelli date alle ultime sculture: in una ricerca in cui predomina l’istinto di scoprire e proteggere quanto, nel misterioso, condiziona la pericolosità delle nostre avventure. In quell’avvicendarsi quotidiano che nasconde la sua vera natura e che. proprio per questo, spinge a cercare protezione.

Nell’affermazione di una scultura che vive per intero la voluttà della sua scoperta.