L. Manzi – 1974

Napoli ha dato molti pittori e pochi scultori – tra l’otto ed il novecento – degni di rilievo ed affermatisi in campo nazionale.

Gli ultimi a dominare la scena sono stati D’Orsi e Gemito, cui si sono accompagnati poco più tardi con minor prestigio e non meno attaccamento alla città Saverio Gatti, Giovanni Tizzano e qualche altro più giovane.

Dopo son trascorsi parecchi anni, quasi di vuoto, fino all’ultima guerra. Ma qualcuno già si è fatto rapidamente strada imponendosi nelle grandi Rassegne internazionali, come Perez, e giovani delle ultime leve (Catelli s’é da poco congedato dal servizio militare) si annunziano quali promesse. Camillo Catelli, nato e cresciuto in un ambiente di artisti, in un clan serrato, di una famiglia patriarcale e rurale, – che ricorda quelle così efficacemente descritte in Cina da Pearl Buck -, attaccata alla madre terra. Il suo « cantiere» è in due vecchi capannoni di una masseria sulla collina dei Camaldoli, poco distante dalle stalle con mucche e vitelli e dal precedente studio del nonno.

In uno di essi sono ammucchiate terrecotte del padre e dello zio in una serie di scaffali polverosi; teste di uomini e donne, animali. Nell’altro più grande, si ergono grandi masse, come su palafitte di sostegno, ancora informi ma che indicano qualche cosa che tende a sollevarsi e questa supposizione piuttosto vaga trova poi conferma in una serie di cere in preparazione, oltre che in un tronco d’uomo eretto ben definito, con la parte superiore che invece è informe, tra il metafisico ed il surreale tendente a separarsi dal corpo.

Le cere rappresentano figure umane, uomini o donne che cercano di liberarsi da qualcosa che li immobilizza ed anche qui i tronchi sono ben visibili, con le gambe dalle masse muscolari contratte per il movimento ed il disimpegno, mentre la parte superiore è nascosta da veli o vestiti portati in alto per la liberazione. Questo dinamismo plastico appare subito non come fine a se stesso cioè: rappresentazione del movimento bensì quale mezzo per esprimere un concetto attraverso quell’atteggiamento che è di liberazione.

Una liberazione duplice: dal mondo esterno (che incatena il corpo) e dal proprio corpo (la testa: anima, pensiero, volontà che perde i suoi connotati fisici e si trasforma in qualche cosa che tende a staccarsi dal tronco – abbastanza ben evidenziato come natura, realtà – (per assumere altra forma surreale o metafisica come nelle immagini di Savinio). Si ribella il corpo contro il mondo esterno, la società che lo imprigiona e l’opprime, o si ribella o si perde, si smarrisce (in un simbolismo astratto). Le figure così rappresentate ricordano talune di De Stefano atteggiate a liberarsi dagli indumenti sotto un aspetto allusivo. In mezzo al capannone si allunga poi orizzontalmente come un mostro antidiluviano, nell’ombra, un tronco d’albero che ha già subito violenze dalla natura o dall’ambiente e dall’uomo ed è stato collocato là, tra le altre masse d’ambiguo aspetto in attesa forse di altre modellazioni per diventare opera d’arte. Oppure a restare così, a simboleggiare il punto di partenza della ricerca di Catelli, il modulo creativo primordiale, il dato naturale inerte ( staccato dal suo ambiente) diventato solo materia, in attesa del soffio, vitalizzante e creatore, dell’arte che la trasformi per nuova immagine e funzione. Sulle pareti vi sono grandi abbozzi di linee-idee.

Nell’ombra, al centro, palpita una fiammella che sembra una lampada votiva, ma è anch’essa come le altre cose notate un segno di realtà in moto e funzionante, – poiché serve ad arroventare il ferro che deve modellare la cera.
In tutto l’ambiente interno v’é quindi, da una parte (nel primo antro…) un passato di arte che rasenta l’artigianato col mucchio di forme e di sagome; dall’altra (nel secondo più vasto), l’officina, il cantiere in cui si agita il moderno futuribile… E non basta, poiché v’è quello ancora coperto attiguo: il forno col piano antistante per rinterro (inumazione e resurrezione) delle forme con cere; ed infine, all’esterno un orto (che poi si continua con la campagna) disseminato di frammenti gessosi o cretacei tra i quali emerge un vitellino che si torce per leccarsi un fianco, e sembra vivo, quasi a simbolo di un passato ancora presente.

Il piccolo Camillo, barbuto, opera silenzioso, (quasi erede di un nume pagano) ma purtroppo con un piede qui ed uno lontano: prima a Roma presso quell’Accademia di Belle Arti con Pericle Fazzini e poi ad Anagni per il fresco incarico di docente.