Ruggero Savinio – Roma, 2008
“La grave leggerezza del mito per Camillo Catelli”

Non amo il bronzo. Dice lo scultore. Il bronzo: la staticità della forma disposta per un tempo perenne, idea plastica rappresa in un’implacabile assolutezza.

Le sue figure, invece, anzi, i suoi personaggi e le altre presenze, come indicano i titoli, subito accennando a una condizione mobile, esposta alla trasformazione, si espandono nello spazio e vi si inoltrano avventurosamente. Sono ormeggiate, però alla terra, alla zolla germinale – terra, appunto – su cui s’imprime la forza che le plasma e le avvia all’esplorazione dello spazio. È un’espansione azzardata, che ha l’allegria e l’allarme di un esercizio acrobatico, dove il dramma si risolve nella grazia gioiosa di un movimento senza peso.

Il moto delle figure si inanella in racconto. Anche questo è un modo di sottrarsi alla costrizione centripeta, alla chiusura dello spazio, e acconsentire a ritmo temporale.

Il racconto ha la persuasione e l’improbabilità del mito, o anche della favola. Niente a che vedere con una resa realistica del mondo e degli oggetti. I personaggi sono sempre sul punto di trasformarsi in presenze altre: se sostano ai piedi di un albero sono pronti a diventare albero a loro volta, o roccia, o nuvola. A volte a scorporarsi fino alla più grande leggerezza, quella degli aquiloni. Mi sembra che il moto sia una condizione essenziale di questa scultura. Anzi, forse, il conflitto tra il moto e la stasi, o, detto altrimenti, quello fra la pesantezza e la grazia, nel quale si manifestano e si riassumono le ragioni ultime del mito e, insieme, quelle della scultura di Camillo Catelli.